Architettura Organica: coerenza tra uomo e natura

All'inizio del '900 si sviluppa, come branca dell'architettura moderna, l'Architettura Organica. Strettamente legata all'architetto statunitense Frank Lloyd Wright, questa corrente si pone come scopo il creare edifici che si integrino completamente con l'ambiente circostante, in cui la natura possa entrare e viceversa. Per fare ciò vengono usate ad esempio grandi finestre, ed aperture sull'esterno;  vengono inoltre utilizzati materiali che il più possibile siano legati al luogo in cui sorge la costruzione. Le opere organiciste si muovono dunque senza modelli già dati, ma l'autore lascia che la sua opera venga definita dal luogo in cui si trova. Gli architetti che aderiscono a questa corrente inoltre ricercano edifici che siano a misura d'uomo. L'identità dell'opera viene dunque data dal suo rapporto con l'esterno e con chi ci abiterà.
Simile a questo concetto ma, da un certo punto di vista, opposto è il "25 verde", un palazzo residenziale tutto italiano costruito nella città metropolitana di Torino. Esso rappresenta il primo esperimento di bio-architettura ecosostenibile in una città. L'edificio, che si trova a pochi passi dal Parco del Valentino, risulta poco coerente con l'ambiente circostante poiché "è concepito come una sorta di foresta abitabile" (citazione dell'architetto-capo Luciano Pia) ed è proprio questa la sua unicità. In antitesi con i progetti dell'Architettura Organica il 25 Verde è circondato da palazzi in linea con l'urban design. È esso stesso infatti a contrapporsi all'ambiente circostante, tanto che per realizzarlo sono state necessarie azioni di prevenzione contro lo stress da spostamento per le innumerevoli specie di arbusti che compongono l'edificio. Per approfondimenti: http://www.lineeverdi.com/portfolio/25-verde.


Uno dei capolavori dell'architettura organica è la
"Casa sulla cascata", di Frank Lloyd Wright


Frank Lloyd Wright, uno dei maestri dell'architettura organica

"25 verde" in via Chiabrera a Torino.

http://www.didatticarte.it/storiadellarte/26%20organicismo.pdf
http://www.lineeverdi.com/portfolio/25-verde/


Marx ed il lavoro


 "Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche etc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo confronta libero il suo prodotto. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene: mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza."
                         (Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo manoscritto, « Il lavoro alienato »)
                                                                                              fonte: http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaM/marx3.htm

Uno dei massimi filosofi ad affrontare la problematica del rapporto tra l'uomo ed il suo lavoro è Karl Marx. Secondo il filosofo tedesco il lavoro é cruciale nel definire l'uomo, é ciò che lo distingue dall'animale ed una manifestazione della sua essenza. Anche l'animale infatti produce e lavora, ma fa ciò esclusivamente sotto il dominio del suo bisogno fisico e la sua necessità, l'essere umano invece produce liberamente e consapevolmente.
All'interno del sistema di produzione capitalistico però l'operaio si vede privato dell'oggetto che ha prodotto, questo é infatti proprietà del capitalista. Ciò comporta un'estraniazione rispetto al proprio lavoro e rispetto a sé stesso.
Per parlare di questo meccanismo di estraniazione Marx ricorre al termine alienazione. Egli sostiene che questa consista di quattro aspetti correlati, ovvero l'estraniazione da:
-il prodotto del suo lavoro;
-la sua attività lavorativa;
-la sua essenza d'uomo;
-la società;



Charlie Chaplin nel film "Tempi moderni" in cui viene messa in risalto l'alienazione dell'uomo nelle fabbriche e il rapporto uomo-macchina. 
fonte: http://www.filosofico.net/karlamarx842tosd6sdwe.htm

Il lavoro e la coerenza in “La chiave a stella”, di Primo Levi


“[…] con la chiave a stella appesa alla vita, perché quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta […]”
(Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, Torino, 2014, p.72)

“[…] l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.”
 (Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, Torino, 2014, pp. 78-79)

Nel libro “La chiave a stella”, la categoria filosofica di coerenza appare in primo luogo nel ragionamento di Primo Levi sul rapporto tra l’uomo ed il suo lavoro. Nei lunghi dialoghi con il montatore Tino Faussone infatti ricorre spesso l’idea che il lavoro sia parte integrante dell’uomo, che lo definisca e lo nobiliti, che sia espressione all’esterno dell’uomo. Dunque il lavoro ed il suo prodotto sono coerenti con il lavoratore stesso, vi è tra essi continuità.
Levi attribuisce al lavoro un’importanza tale da considerarlo “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra.”. Risulta dunque fondamentale che chiunque trovi nel proprio mestiere una parte di sé, in modo da amare ciò che produce e di conseguenza amare sé stesso e la vita.
I racconti di Faussone rendono ciò evidente: ogni sua parola è infatti intrisa di passione per ciò che fa a tal punto da sembrare che provi empatia verso le “sue” opere.
La coerenza di cui parla Levi è quindi quella che porta l’uomo a fare ciò che ama e ciò che è effettivamente, e proprio per questo ne riempie la vita di significato e la nobilita. Questo è infatti il caso del protagonista, il cui mestiere è il montatore e per il quale la chiave a stella è “come la spada per i cavalieri di una volta”.

Edizione del 2014 de "La Chiave a stella" , Einaudi .

Dadaismo e la morte della bellezza



"L'opera d'arte non deve rappresentare la bellezza che è morta. Un'opera d'arte non è mai bella per decreto legge, obiettivamente, all'unanimità. La critica è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità."
("Manifesto del Dadaismo", 1918, Tristan Tzara)



"Fontana", Marcel Duchamp
Il dadaismo nasce ad inizio 1900 a Zurigo, in Svizzera. L'intento di questo movimento artistico é di essere contro ogni precedente corrente artistica e contro ogni idea di bello e perfetto. L'intento é proprio di distruggere ogni modello di bello e di arte.
Il dadaismo vuole essere libertà. Gli artisti legati a questa corrente ricercano lo shock nello spettatore, e non la bellezza, ritenuta morta. Per fare ciò si affidano completamente al caso: ogni oggetto può essere arte. E' questa l'idea alla base del ready-made, ovvero il creare un'opera aggregando oggetti completamente scollegati tra loro.
"Fontana", di Marcel Duchamp ne é uno dei massimi esempi di ciò: un'oggetto che non aveva nulla a che fare con l'arte diventava invece arte passando per le mani di Duchamp.


https://www.theartpostblog.com/fontana-duchamp/http://www.didatticarte.it/storiadellarte/23%20dadaismo.pdf

Una definizione di bello dal dizionario filisofico di Voltaire

BELLO, BELLEZZA


''Chiedete a un rospo cos'è la bellezza, il bello assoluto, to kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello è per lui una pelle nera, oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato.  Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme all'archetipo del bello in sé, al kalòn.  Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo. «Quant'è bella!», diceva. «Cosa ci trovate di bello?» domandai. «Il fatto,» rispose, «che l'autore ha raggiunto il suo scopo.» L'indomani egli prese una medicina che gli fece bene. «Essa ha raggiunto il suo scopo,» gli dissi, «ecco una bella medicina!» Capì che non si può dire che una medicina è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn, il bello.  Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori. «Oh, oh,» disse, «il kalòn non è lo stesso per gli inglesi e per i francesi.» Concluse, dopo molte riflessioni, che il bello è assai relativo, così come quel che è decente in Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un lungo trattato sul bello.''

Da: Dizionario Filosofico, Voltaire, p.18

Coerenza nella filosofia occidentale e nel pensiero cinese

La parola coerente deriva dal latino co-haerere, che si traduce “essere attaccato”, “essere strettamente unito” ¹.
Nel suo libro “Essere o vivere. Il pensiero occidentale ed il pensiero cinese in venti contrasti”, François Jullien, sostiene che in occidente sia stato Eraclito il primo a sviluppare la logica della coerenza, “Aprendo i contrari l’uno all’altro senza mediazione, associandoli in modo oppositivo senza coordinarli, Eraclito prende apertamente posizione: lascia accadere nella sua parola la coerenza innata delle cose che il discorso ordinario di significazione, disgiuntivo com’è, finisce sempre per occultare […]” ³. Il filosofo francese accosta la categoria filosofica di coerenza al pensiero cinese, essendo questo rivolto a guardare le cose nella loro relazione con il resto della realtà, quando invece il mondo occidentale tende a ricercare in ogni cosa la sua essenza. Egli scrive riguardo alla lingua-pensiero cinese che "Non ha pensato l'atomo come elemento primario; non ha nemmeno pensato a "Dio" come un creatore isolato: ha pensato il "Cielo" non a parte, ma in correlazione con la Terra."².

Sempre Jullien scrive poi, a proposito dello scarto tra il pensiero occidentale, legato al senso, e quello cinese: "Mentre lo scopo del senso é deiscente e dischiudente-e ha trasformato la vita in enigma, ragion per cui non ha saputo disfarsi di un pensiero della salvezza-, il pensiero della coerenza fa entrare nell'economia delle cose (o, come la chiamavano i greci, nella loro "sintassi", syn-taxsis). Non c'é più bisogno di ricorrere al racconto esplicativo (per rispondere all'enigma), di elaborare un mythos: la sola descrizione delle cose, scorrendo nella sottile nervatura dei loro appaiamenti, é sufficiente."¹.



Taijitu, simbolo della cultura cinese che rappresenta lo yin e lo yang


²Francois Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale ed il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano, 2019, p.97.
³ Francois Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale ed il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano, 2019, p.92.

¹Francois Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale ed il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano, 2019, p.100.

La "Rivoluzione copernicana" di Immanuel Kant

Immanuel Kant, attraverso la sua "Rivoluzione copernicana", spiega che la capacità dell'uomo di comprendere la realtà derivi dal fatto che non é il soggetto che deve modellarsi sull'esperienza oggettiva, ma bensì è quest'ultima a doversi adattare alle forme a priori dell'uomo.
La validità delle leggi scientifiche é dunque nel fatto che la struttura mentale a priori é la stessa per ogni uomo.
Kant dunque pone al centro del processo conoscitivo il soggetto al posto dell'oggetto, proprio come Copernico aveva spostato il Sole, invece che la Terra, al centro dell'Universo.
Il pensiero di Kant mette in evidenza come ci sia una fondamentale coerenza tra il nostro modo di capire il mondo e la natura ed il nostro essere umani. Infatti, proprio poiché siamo umani, comprendiamo la natura in un determinato modo.

https://arturosophia.wordpress.com/4e-lsa-201619/4-modulo-la-filosofia-classica-tedesca/la-rivoluzione-copernicana-di-kant/
Le categorie Kantiane


Coerenza ed ingegneria

"Casa sulla cascata", Frank Lloyd Wright


La categoria di coerenza è centrale nell’ingegneria. Il prodotto di quest’ultima trova infatti il suo scopo nella relazione con l’ambiente circostante, che ne definisce le caratteristiche ed il perché di esistere. Allo stesso tempo l’opera artificiale ridefinisce il luogo in cui si trova, per cui ad esempio una valle, al fondo della quale venga costruita una diga, può diventare un bacino di raccolta idrica, il mare solcato da una nave diviene un tramite attraverso cui muoversi, un cellulare ridefinisce la funzione della nostra mano. Si arriva ad un punto in cui naturale ed artificiale sono a tal punto legati da non poter più comprendere appieno l’uno senza tener conto dell’altro, vi è una profonda coerenza tra essi.
È l’uomo il collante tra opera ingegneristica e natura, l’elemento che unisce artificiale e naturale senza opporli. Il prodotto della tecnica è utile infatti a conciliare le necessità imposte dal progresso e dalla società con i vincoli naturali. Dunque naturale, artificiale e uomo formano un insieme coerente.
L'ingegnere nel suo lavoro deve dunque chiedersi quale sia il modo di operare più coerente possibile con l'ambiente circostante, come i problemi del territorio su cui lavora o l'ambiente sociale con cui la sua opera impatterà. Deve riuscire ad adattare i modelli risolutivi che gli vengono dati dalle sue conoscenze teoriche alla situazione reale con cui si trova ad interagire, in modo che il suo lavoro sia coerente con esso.

Coerenza: relazione chiave con l’identità

Alla luce della lettura dei testi di Primo Levi e di François Jullien si può definire una relazione chiave tra il concetto di coerenza e quello di identità. Risulta infatti evidente che l’identità, e più in generale il perché dell’esistere di qualcosa, sia dato non esclusivamente dalle sue proprietà intrinseche, ma anche dalla sua relazione con il mondo esterno. Ne “La chiave a stella” ciò si trova nel rapporto uomo-lavoro: il lavoro è il mezzo che si ha per interfacciarsi con la società e la natura, dunque è necessario che sia il più possibile coerente con chi l’uomo è effettivamente, affinché quest’ultimo si possa rispecchiare nella sua opera e riempire di significato la sua esistenza.
Un discorso simile può essere fatto per un qualsiasi oggetto. Essi trovano la loro identità non nell'esistere di per sé, ma nel rapporto con l'esterno, nella loro utilità. Inoltre il prodotto stesso definisce parte dell'identità del produttore, sia come opera in sé, sia come esperienza, che nel suo svolgersi nel tempo e nella durata modifica la personalità del produttore.

"A scuola mi avevano insegnato il concavo ed il convesso: bene, io sono diventato un montatore convesso, e i lavori concavi non fanno più per me."

                                                                  (Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, Torino, 2014, p.25)







Il modello nel pensiero cinese

Il concetto di modello è lontano dal pensiero cinese.  Nel libro “Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente” (Francois Jullien, Pensare l'efficacia in Cina e in Occidente, Editori Laterza, Roma-Bari, 2018), François Jullien, ragionando sulla diversa concezione di guerra tra gli occidentali e i cinesi si chiede: “[…]la guerra non essendo modellizzabile, è forse per questo incoerente? O non esiste forse un'altra coerenza,  e presa sulla realtà, diverse da quelle che la modellizzazione dà per scontate?” (p.23). Il filosofo francese trova la risposta nel pensiero cinese: i modelli fatti a priori non sono l'unico modo di condurre la guerra, l'alternativa è ricercare in ogni situazione il suo potenziale e sfruttarlo. Nel mondo cinese infatti, il grande generale non è colui che riesce a vincere la battaglia grazie ad un'intuizione o ad un colpo di genio, andando contro le condizioni avverse e sconfiggendo il nemico contro ogni aspettativa, ma colui che riesce nel tempo a portare tutti i fattori vincenti dalla sua parte e attaccare quando si ha già vinto.


Sun Tzu, generale e filosofo cinese